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Nascono parchi eolici come funghi e i territori coinvolti alzano le barricate

Appena si ha notizia della nascita di un parco eolico si formano comitati contrari. Del tema se ne occupa la rivista Espansione (edicoladigitale.info) con un articolo di David Taddei.

Negli ultimi mesi, il nome Visconti ha iniziato a ricorrere con una frequenza insolita nei documenti amministrativi, nelle conferenze dei sindaci, nelle osservazioni depositate nei procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale (la VIA). Compare in Toscana, riappare in Umbria, affiora nelle aree di confine con il Lazio. Non è il nome di una grande multinazionale dell’energia, né quello di una utility storica. Eppure, dietro quel cognome, si concentra oggi una delle più ampie iniziative di sviluppo eolico dell’Italia centrale. Se n’è occupato un giornalista come Gian Antonio Stella (ricordate il libro La Casta?) sul Corriere della Sera. Perfino Le Iene di Mediaset hanno realizzato un lungo reportage al vetriolo. La notizia è di quelle che spaccano in due il mondo dell’ambientalismo e di coloro che inseguono la transizione ecologica: si possono innalzare torri di acciaio e cemento di 200 metri in mezzo alle campagne più belle del mondo, fra vini famosi, tartufi bianchi, paesaggi iconici, modificando brutalmente territori rimasti intatti per secoli?

Il cosiddetto “Gruppo Visconti” non è un gruppo nel senso classico del termine. Non ha un bilancio consolidato di grandi dimensioni, non possiede una struttura industriale imponente, non conta migliaia di addetti. Attorno a un nucleo societario centrale, con sede a Milano, ruotano decine di minuscole società a responsabilità limitata create su base territoriale. Ogni società porta il nome di un comune o di un’area geografica: Scansano, Magliano, Manciano, Pitigliano, Asciano, Castel Giorgio, Piombino. Ogni società corrisponde a un progetto eolico o a una variante dello stesso.

Attivisti e comitati parlano di “centinaia di progetti” nel Centro Italia, in realtà, il numero dei parchi eolici veri e propri è più contenuto. I progetti riconoscibili, quelli con una configurazione tecnica definita, sono circa una decina. A moltiplicarsi non sono tanto gli impianti quanto le procedure: istanze di verifica, richieste di scoping, società veicolo diverse che insistono su aree contigue. È una strategia nota nel mondo dello sviluppo energetico, ma raramente applicata con una tale intensità territoriale.

Il cuore di questa operazione è la Maremma grossetana. Tra Scansano, Magliano, Manciano e Pitigliano si concentra il primo grande cluster di iniziative. Qui i progetti prevedono impianti di grandi dimensioni, con pale alte fino a duecento metri, collocate su crinali agricoli e paesaggi di alto valore storico e ambientale, vicino alle pregiate vigne dove si produce il Morellino di Scansano. La Regione Toscana ha espresso più volte pareri negativi, sottolineando l’incompatibilità con il contesto paesaggistico. Ma la competenza finale, in molti casi, è statale. E così i procedimenti restano aperti, sospesi in una lunga fase di confronto che esaspera le comunità locali ma anche gli imprenditori impegnati nei progetti.

Il “caso” di Asciano, nelle Crete Senesi, segna un salto di qualità simbolico. Qui l’eolico entra in uno dei paesaggi più iconici d’Italia, un territorio che è diventato immagine nazionale prima ancora che spazio produttivo. Dove il paesaggio è la ricchezza più grande che porta turismo, rimasto uguale a come fu immortalato nel celeberrimo affresco medievale di Ambrogio Lorenzetti. Il ciclo del Buongoverno rappresenta in modo dettagliato il paesaggio delle Crete Senesi, incluse le zone che ricordano il “Deserto di Accona” con le sue forme uniche (biancane e calanchi). Immaginate di metterci una decina di torri alte 200 metri al centro!

L’opposizione è trasversale, il dibattito supera i confini locali e investe il senso stesso della transizione ecologica in un paese che fonda parte della propria identità sul paesaggio.

Con Castel Giorgio e l’area di Orvieto, Visconti oltrepassa i confini toscani e approda in Umbria. È un passaggio strategico, perché dimostra che l’esperimento maremmano non è un caso isolato ma un modello replicabile. Cambiano le regioni, cambiano gli interlocutori politici, ma la struttura dell’operazione resta la stessa: società dedicate, progetti di grande scala, procedimenti nazionali.

Anche sulla costa toscana, nella Val di Cornia, emerge un progetto riconducibile alla stessa galassia. Qui le dimensioni sono più contenute, ma il segnale è chiaro. L’espansione geografica è in atto. Nel Lazio, in particolare nella provincia di Viterbo, il quadro è più sfumato. Non emergono ancora grandi parchi eolici, ma compaiono opere connesse, società registrate, territori che entrano indirettamente nella mappa dell’eolico.

Chi c’è, allora, dietro questa rete di progetti? Dai dati pubblici emerge una struttura essenziale. Le società hanno capitali limitati, amministratori ricorrenti, una vita potenzialmente breve. Non risultano, almeno in modo diretto, grandi fondi internazionali o colossi dell’energia come soci. Tutto lascia pensare a un modello di sviluppo puro: l’obiettivo non è costruire e gestire gli impianti, ma portarli il più avanti possibile nell’iter autorizzativo per poi cederli a operatori più grandi. In questo schema, il vero valore non è l’energia prodotta, ma l’autorizzazione ottenuta.

È un modello perfettamente legale, ampiamente utilizzato nel settore delle rinnovabili. Ma quando viene applicato in modo massiccio e concentrato, produce un effetto dirompente. I territori si trovano a fronteggiare non un singolo progetto, ma una pressione continua e frammentata, difficile da governare politicamente e amministrativamente. Poi spesso accade che i grandi player, una volta acquisite tutte le autorizzazioni, comprano e accorpano, creando grandi parchi eolici che difficilmente avrebbero potuto realizzare in tempi brevi presentando un progetto unico.

E qui gli ambientalisti litigano fra loro: “bene accelerare per salvare il pianeta” oppure “iniziamo a non distruggere il nostro territorio”? Alla fine, la discussione è tutta qui.

Il caso Visconti, in questo senso, non è un’eccezione ma un sintomo. Mostra le tensioni di un sistema normativo che incentiva la moltiplicazione delle proposte e scarica il conflitto sulle comunità locali. Mostra il cortocircuito tra la necessità di accelerare la transizione energetica e la difficoltà di farlo senza una pianificazione chiara delle aree idonee. Mostra, soprattutto, come soggetti relativamente piccoli possano oggi muovere trasformazioni territoriali enormi.

Capire cosa sta accadendo intorno al nome Visconti significa guardare dentro il futuro prossimo dell’energia in Italia. Un futuro in cui il conflitto non sarà tra rinnovabili sì o no, ma tra modelli diversi di sviluppo, di governance e di rapporto con il paesaggio.

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