La riforma della giustizia suscita timori esagerati tra gli addetti ai lavori
Luciano Panzani è un attento osservatore delle vicende politiche di questo nostro amato Paese. Oggi, su Inpiù, interviene sul referendum sulla giustizia.
Ora che l’attenzione sulle elezioni regionali viene meno, ritorna di attualità il dibattito sul referendum. L’esito, com’è noto, è incerto e sarà deciso da chi ad oggi non ha un’opinione e, soprattutto, da chi sarà convinto ad andare a votare. Le domande che molti “non addetti ai lavori” si pongono sono semplici. La proposta separazione delle carriere è un rimedio all’inefficienza della nostra giustizia? Se la separazione delle carriere è un rimedio ad altro, vale a dire all’eccessivo potere in mano ai Pubblici Ministeri, una volta che essi si autogovernino in piena autonomia, non vi è il rischio che acquistino ancora più potere? E in tal caso, non vi è il rischio che una futura riforma, sostanzialmente obbligata, li metta alle dipendenze dell’Esecutivo? Ciò che era nel programma di Licio Gelli e della Loggia P2, come del resto la stessa separazione delle carriere? La separazione delle carriere è una logica conseguenza della scelta, fatta nel 1989 con l’allora nuovo codice di procedura penale (fortemente voluto dagli avvocati), del processo accusatorio, in cui il PM, rappresentante dell’accusa e la difesa stanno sullo stesso piano, davanti al giudice terzo ed imparziale. Non a caso si modificarono le aule giudiziarie. Prima il PM sedeva a fianco del giudice, sullo stesso scranno. Ora e’ seduto in aula, a fianco degli avvocati. Non si è però modificato l’ordinamento giudiziario. Un unico CSM significa che i PM pesano nella scelta e nomina dei giudici, soprattutto nei posti chiave. Un giudice può essere meno indipendente se teme di perdere voti al CSM nel decidere un processo in un certo modo. E se vede il PM come un collega, può subire la sua influenza al di fuori della sede processuale.
La separazione delle carriere non ha effetti sull’efficienza della giustizia in sé, ma può contribuire ad un miglior esercizio della funzione giudiziaria. Non si dica che i magistrati sono partecipi della medesima cultura della giurisdizione e passano indifferentemente da una funzione requirente ad una funzione giudicante. Ciò da molti anni è stato reso difficile e interessa ormai una minoranza di magistrati. Era vero prima della riforma del 1989, quando la polizia non dipendeva dal PM e faceva le indagini autonomamente, sotto la direzione del Ministero dell’Interno. In quella situazione il PM era il primo magistrato che esaminava l’ipotesi accusatoria della polizia e rappresentava una garanzia per il cittadino. Tutto ciò oggi non esiste più perché è il PM che dirige le indagini e quindi l’ipotesi accusatoria è da lui formulata e portata avanti. I PM con un loro CSM avranno più potere? Non vi è ragione per pensarlo. I poteri restano gli stessi. Le norme oggi come domani garantiscono l’indipendenza del PM. Semmai, una magistratura giudicante più indipendente contribuirà a limitare l’esercizio improprio di tali poteri. Quanto al rischio che i PM finiscano sotto il controllo dell’Esecutivo, si dimentica che occorrerebbe un’altra riforma costituzionale e che in quell’occasione tutto tornerebbe in discussione. E va aggiunto che vi sono molti Paesi democratici in cui l’organo dell’accusa è soggetto all’Esecutivo che, occorre ricordarlo, risponde al Parlamento. La riforma potrebbe certamente essere migliorata (ma la responsabilità è anche della magistratura che ha preferito schierarsi per il no senza cercare il dialogo), ma i timori che suscita paiono largamente esagerati.





