#CULTURA #ULTIME NOTIZIE

Marco Benedetto, se n’è andato un visionario e gigante dell’editoria

Se n’è andato Marco Benedetto. Al grande pubblico è un nome che dirà poco ma è stato un gigante del mondo dell’editoria. Ecco un articolo che scrisse per raccontarsi.

Alcune righe su di me.

Sono nato a Genova il 26 gennaio del 1945. La città era occupata dai tedeschi (mia madre ricordava con un brivido gli stivaletti con cui calpestavano i nostri marciapiedi). Le case intorno a quella dove sono cresciuto e alla clinica dove sono nato erano tutte macerie. Ho trovato il conto della degenza: 2.680 lire.

Bombardavano anche quando ho visto la luce. Il prete voleva scappare, mio padre (barbiere comunista non militante e credente) lo bloccò: “Nella casa di Dio non si deve avere paura”. All’epoca dominava la convinzione che se morivi non battezzato finivi nel Limbo. Io ero a rischio: ero prematuro di 8 mesi con itterizia da madre di 43 anni.

Mi salvarono in una cameretta di 3 metri per 1,5, dove poi dormii per 25 anni, piena di stufe e borse di acqua calda. Ci sarebbe voluta una incubatrice, ammise la levatrice quando ormai ero fuori pericolo. Mio padre si dissanguò per comprare il latte artificiale alla borsa nera. Figlio di genitori anziani, circondato da vecchi e cresciuto in mezzo a persone molto più grandi di me avendo iniziato a lavorare ancora al liceo, ho sempre visto la vecchiaia con timore e fastidio.

So far so good, il peggio deve ancora arrivare. Molti miei amici sono vivi, pur con acciacchi, molti ci hanno preceduto nei pascoli del Cielo, in anni giovanili e di recente. Nella mia ascendenza, il ramo celtico della nonna paterna dà speranze: lei, pur diabetica, morì a 93 anni, mia sorella a 90, mio padre a 86, mio cugino a 91, la sorella di questo cugino ne ha 94. La componente etnica ligure paterna (basso Piemonte) e materna (genovese) non ha dato grandi prove di longevità. Vedremo.

Fui scoperto e lanciato da Giancarlo Piombino, futuro sindaco di Genova, nei giorni della maturità e iniziai a curare pagine e rubriche la domenica, in un giornale che usciva a Genova solo il lunedì. La sede e gli arredi erano quelli di un quotidiano che usciva prima della guerra, negli anni ‘30. Ritrovai lo stesso arredamento negli uffici della Komsomolskaja Pravda a Mosca 40 anni dopo.

Da quel momento la mia vita si è dipanata come un gomitolo magico, fino a capo ufficio stampa della Fiat, amministratore delegato della Stampa e amministratore delegato del Gruppo Espresso–Repubblica negli anni di trionfo in Borsa. Alla Stampa guidai, primo in Italia, il passaggio della redazione all’uso dei computer (grazie anche al contributo di Pierangelo Coscia e la comprensione di Giorgio Fattori), a Repubblica ho introdotto il colore, lanciato il femminile e conseguito accordi sindacali che hanno ridotto di molto le prospettive di crescita dei costi industriali e redazionali.

La lista delle persone cui sono legato da gratitudine è lunga. Ha inizio con Gianluigi Corti, che mi fece scendere dall’albero della poesia e entrare nella prateria della pallavolo e dello sport (un dolore mi affligge, non averlo saputo ripagare quando avrei potuto), Renzo e Giorgio Bidone, cui devo i primi passi e i primi insegnamenti, Giancarlo Piombino che mi lanciò nel mestiere nei giorni dell’esame di maturità, Luigi Vassallo, maestro di lavoro e impegno, Gaetano Fusaroli, Sergio Lepri, Licinio Germini, Giovanni Giovannini, Alain Elkann, che aprì per me le porte del cuore di Caracciolo, Luca Montezemolo, cui debbo il grande balzo in avanti che mi aprì le porte dell’empireo. Siamo ancora amici, con nostalgia e affetto.

Ho avuto la fortuna di lavorare con personaggi come i due fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti, come Eugenio Scalfari, un genio. A De Benedetti devo la fortuna finanziaria. A Carlo Caracciolo, alla cui dipendenza ho lavorato per un quarto di secolo, devo metà della mia vita. Da ciascuno ho imparato qualcosa fino a essere il vecchio che sono, emulo di Nestore.

Non è stato un cammino in pianura ma irto di alti e bassi, fra i rischi di una pallottola negli anni di piombo, le insidie della guerra di Segrate, le difficoltà di adattamento al nuovo ambiente romano da Genova via Londra e Torino, l’incubo di azionisti come Mondadori e Cir.

Sto lavorando per garantire un futuro oltre la mia esistenza a Blitzquotidiano, il giornale online che state leggendo. Siamo fuori da 15 anni, grazie a un manipolo di ventenni, la grafica di Remigio Guadagnini, la mano di Fedado, la tecnologia di Marco Corsaro, seguito da Luca Ferlaino.

Non ho mai avuto molte frequentazioni, quando vivevo a Torino trovavo i torinesi troppo espansivi, cosa che ha ammortizzato gli effetti della solitudine dopo il ritiro. Vivo bene, accudito da Jorge Carranza e Filomena Ramos, con me da 30 anni.

Oltre agli amici che ho già ricordato, frequento e stimo Giovanni Valentini, con il quale condivisi i mesi difficili della occupazione berlusconiana, Stefano Mignanego e Francesco Dini, unici fra i mei ex colleghi a ricordarsi ancora di me, ma nel mio destino c’è l’obliterazione come nell’Urss e in Vaticano,

Franco Siddi e Raffaele Lorusso, Sebastiano Sortino, Milvia Fiorani, Lamberto Dolci e alcuni politici: Luigi Zanda, amico da 40 anni, dai tempi del mio arrivo all’Espresso, Maurizio Gasparri, del quale ho sempre apprezzato la straightforwardness, la semplicità e chiarezza del parlare diritto e diretto, e Italo Bocchino, altra persona semplice e diretta.

Provo molta ammirazione per Paolo Gentiloni. Abbiamo lavorato insieme per un po’ ai tempi di Nuova Ecologia. Quando la chiudemmo, Gentiloni si comportò con grande correttezza. Mentre cercavo di farlo accettare da quelli dell’Espresso come inviato speciale, un giorno venne a pranzo da me annunciandomi che tentava la politica come assistente di Francesco Rutelli al Comune di Roma. Gli dissi di pensarci bene perché mi sembrava un errore. Uno dei miei tanti giudizi e consigli sbagliati.

Stimo e ammiro Paolo Flores d’Arcais e Roberto D’Agostino, diavolo e acqua santa. Li unisce l’onestà e la passione.

La mia vita è una ulteriore testimonianza del gigantesco progresso dell’Italia con la repubblica e la appartenenza alla sfera americana. Non credo che sarebbe stato possibile un secolo prima: avrei fatto il barbiere come mio padre. Ci sono stati, nei secoli passati, casi di italiani di modesta estrazione che sono entrati a corte, prendete il caso di Casanova. Ma la regola era la negazione della mobilità sociale. Faceva eccezione l’impero ottomano, in cui il figlio di un pastore poteva diventare gran visir: ma a che prezzo?

Non sempre, ammetto, ho avuto presente Giobbe, “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò”, o Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”.

Cercherò di rimediare.

Marco Benedetto, se n’è andato un visionario e gigante dell’editoria

Leva volontaria, a maggio il disegno di

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *